Semplicemente googlando il termine “social” come ho appena fatto io potreste scoprire che:
– Sky TG24 ha sagacemente unito il nome dei vincitori del Festival con la sua ultima rubrica creando un ciclo di documentari a tema elezioni che si chiama Lo Stato Social;
– alcuni li accusano di distorsione della cronaca nera;
– altri si domandano che impatto avrebbero avuto sulle fiction giovani per eccellenza di quando ero bambino (Beverly Hills e compagnia bella);
– c’è chi si è preoccupato didi tirare giù l’identikit del “drogato di social” per eccellenza;
– altri ancora invocano il riposo e l’astensione dei giovani dalle platform.
Insomma: il networking (e con lui la digital transformation di cui è espressione) è pervasivo. Ma questo lo sapevamo un po’ tutti. Forse, però, quel che non sappiamo è che essendo pervasivo ce lo ritroveremo davvero ovunque, e finiremo per farci i conti dappertutto. Perfino in un ambito storicamente iper-specialistico, dottrinale, “hard” come quello delle Relazioni Industriali…
Sotto controllo? Come fare relazioni industriali nell’èra di Facebook, della condivisione social e delle platform, in cui tutto ciò che si fa e si dice non è più in un certo senso “sotto controllo”? Attualmente, il nostro modello di reputazione aziendale passa attraverso il vaglio di un filtro che è in primissima battuta social, come tale scarsamente regolato e regolabile, in presenza di organizzazioni che, erogando servizi rivolti ad un mercato, finiscono per essere esposte al giudizio non solo del cliente interno (e delle relative cerchie sociali) ma anche di quello esterno.
La contrattazione. La contrattazione ai tempi dei social network impone dunque la necessità di approntare strategie in maniera trasparente, in una dinamica per la quale il nostro stesso interlocutore si misura e viene riconosciuto in base al criterio di onestà che applica al rapporto. Il tema della rappresentanza che qui si prospetta è peraltro un tema serio, perché non ancora regolamentato in maniera oggettiva (il c.d. Patto di fabbrica siglato lo scorso 9 marzo tra Confindustria e triplice sindacale è ancora in fase embrionale) nonostante si tratti di una leva fondamentale nel governo dell’economia del nostro Paese a partire dal dopoguerra e fino ai nostri giorni. Aggiungiamo un ulteriore tassello… Da molte parti si lamenta il fatto che oggi non si facciano più relazioni industriali, che si sia perduta l’urgenza di trovare una quadra sistemica (magari attraverso un tavolo di concertazione allargata in grado di mettere finalmente a fattor comune Industries, Governo e Parti Sociali).
Siamo tutti talenti… Pardòn, prosumer. Come possiamo riappropriarci di un’abitudine che sembra essere andata perduta? Intercettando un cambiamento di ruolo, certo. Ma facendo ciò con un occhio di attenzione rivolto alla dimensione del palcoscenico sociale, ed al tributo forte di trasparenza che esso invoca a prezzo del mantenimento di una reputation solida e coerente. E’, questa, una tensione che scavalca la mera dimensione di internal communication di ogni azienda, perché chiama in causa il profilo di prosumer (consumatore e produttore al tempo stesso) che le persone esercitano oggi in maniera totalmente inedita rispetto al passato. Fare relazioni industriali significa allora saper porre all’attenzione del proprio interlocutore un piano ed una strategia reale, manifesta, coerente. Un esatto portato di quel principio di HR transparency che una buona fetta degli accademici, l’ala più disruptive, identifica come trend di raccordo tra lo Human Capital in senso lato ed il fronte Labour nel caso specifico.
Disintermediando. Il fulcro del rapporto tra azienda e sindacato si sposta allora da una dinamica di confronto in chiave competitiva ad un equilibrio differente, basato sull’informazione come dato non più riservato a pochi ma in grado di produrre vera e propria contaminazione. Facebook, Twitter, Whatsapp: quanta parte dello scambio informativo relativo alle dinamiche aziendali passa oggi attraverso canali simili? Assistiamo oggi ad un cambiamento che, lungi dall’esaurirsi sul semplice piano tecnologico, tracima in quello di natura culturale. E’ forse allora necessario sviluppare la capacità di (e l’attitudine a) svincolarsi quel tanto che basta dalle proprie impostazioni, liberandosi dei propri unconscious biases per proporre un’interlocuzione più consona a questi tempi inquieti: il 90% delle leggi in tema lavoro transitano ancora e di necessità attraverso un’interlocuzione diretta ed equilibrata delle parti sociali, dove “equilibrata” significa in grado di contemplare quesiti e relative risposte rivolte a stabilire una mediazione concreta. Il tutto non senza dimenticare l’ovvio tema della (scarsa) rappresentanza, vulnus questo che oggi affligge molto più la controparte sindacale che quella datoriale. E’ proprio la pervasività espressa dai social che contribuisce profondamente a realizzare terreni e modalità nuove e più istantanee di rappresentanza disintermediata, mentre sull’altro lato della barricata (quello datoriale), a fronte della riduzione della distanza tra azienda e risorse non di rado si intuisce un trend che vira in direzione della recrudescenza nella qualità dei rapporti stessi, con lo sviluppo di atteggiamenti maggiormente riconducibili ad una necessità “scenica” in grado di ottundere il principio di trasparenza di cui sopra.
Oggi. Oggi scopriamo che la trasformazione digitale ha ridotto del 50% il novero delle aziende a maggior capitalizzazione (quelle del ranking 500 di S&P). Che per la stessa ragione il ciclo medio di vita di un’azienda (fino agli anni Sessanta fermo a quota 60anni) sfiora i 20anni e nulla più. Che anche in questo caso, il mondo anglosassone fa da apripista. E che la distanza tra quest’ultimo e noi si sta rapidissimamente accorciando, quindi fra non molto toccherà anche a noi ricordarci del motto “innovate or perish”. Alla luce di tutto questo, possiamo davvero evitare di riservare un’attenzione a dir poco importante alle istanze di coerenza, onestà, trasparenza? E’ l’èra dell’HR Transparency, bellezza! Ed il Labour non farà eccezione.