Le policy di smart working sono un tema caldo, per cui nel tempo sono state proposte soluzioni, alternative e cambiamenti strutturali quali, ad esempio, l’impostazione del lavoro per obiettivi piuttosto che per “ore” e il modello di settimana corta, applicato già in alcuni Paesi europei. Sorge, quindi, spontanea la domanda: le policy dello smart working sono un elemento di cui dobbiamo liberarci o piuttosto bisognerebbe ripensarle in ottica di sviluppo e utilizzo futuro?
Uno degli insegnamenti più preziosi derivati dallo smart working, soprattutto nella fase di assestamento successiva alla pandemia di covid-19, è probabilmente la capacità delle persone di autoregolarsi ed essere responsabili del proprio lavoro, come evidenziato da molti direttori HR. Nonostante ciò, resta il dubbio su come insegnare ai manager e responsabili che la valutazione del potenziale è indipendente dalla presenza nella sede di lavoro e, quindi, dal luogo in cui viene performata.
Essendo ormai passato dall’essere uno strumento emergenziale a un servizio di welfare imprescindibile, le aziende dovrebbero tener conto del fatto che per dare continuità al business ed essere appetibili sul mercato del lavoro, soprattutto in relazione ai giovani talenti, lo smart working dovrebbe far parte dell’offerta integrativa e della proposta di lavoro.
Per non incorrere nei possibili rischi che uno strumento come lo smart working potrebbe portare, quali l’alienazione dal contesto lavorativo e la perdita dell’aderenza alla cultura aziendale, una soluzione potrebbe essere iniziare a ragionare per obiettivi e purpose piuttosto che per orario e luogo di lavoro. In questo modo, questi ultimi due elementi perderebbero di valore, in quanto non sarebbe più importante il dove e il quando, ma il raggiungimento di un risultato, concordato con i manager a priori. In quest’ottica, anche new way of working come la settimana corta, potrebbero essere non solo funzionali ma vantaggiosi per la popolazione aziendale e il business.
Un’altra criticità incontrata nell’applicazione delle policy di smart working è la compatibilità, o meno, con le realtà industriali e produttive in cui risulta difficile adattare le nuove modalità di lavoro da remoto a tutti gli employee. Questo è stato un punto nevralgico del dibattito durante il periodo pandemico, in cui la realtà industriale si è scontrata con il lavoro da remoto.
Pertanto, risulta necessario, non solo cambiare i modelli organizzativi, ma iniziare a ragionare per obiettivi. Così facendo, ci sarebbe l’opportunità di uscire finalmente dalla dicotomia della differenza tra lavoratori di serie A, ovvero coloro che possono lavorare da remoto, e lavoratori di serie B, che invece non possono farlo lavorando in reparti produttivi e manufatturieri. Basando l’applicazione dello smart working sul purpose, il ragionamento sarebbe: se il lavoro richiede la presenza fisica, vorrà semplicemente dire che questa modalità di lavoro non combacia con il purpose professionale del ruolo.
In questo contesto, lo smart working può sicuramente aiutare sia le organizzazioni che i dipendenti e le policy, intese come accordo individuale tra datore di lavoro e dipendete, non sono qualcosa di cui dobbiamo liberarci ma, al contrario, sono necessarie per regolamentare questo rapporto.
Forse non ci si “libererà” presto dello smart working e, forse, non si dovrebbe neanche. Questa è una nuova organizzazione del lavoro da recepire e adeguare e la sfida principale delle organizzazioni sarà trovare un modo per non perdere la propria identità collettiva e valutare la produttività delle persone. Nato come un calendario lavorativo, ora è un vero e proprio modo di lavorare e il suo futuro è tutto da scrivere.
I temi presenti nell’articolo sono tratti dall’HRD Square – La web radio dei Direttori HR.
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