Cosa significa davvero “leggere” il futuro del lavoro? Significa capire che il cambiamento non è più una transizione, ma una condizione permanente, il “new normal” dell’employability. La velocità con cui evolvono tecnologia, competenze e aspettative delle persone impone un cambio di paradigma: non adattarsi ma ripensare il lavoro in chiave fluida, etica e predittiva.
Tutto questo è stato al centro di Future@Work 2025, l’appuntamento annuale della Community HRC dedicato alle sfide e alle prospettive del lavoro del futuro, che ha coinvolto HR Director e HR expert che hanno spaziato dall’analisi delle disuguaglianze e dell’impatto tecnologico, alla ricerca realizzata dall’Ufficio Studi Luiss Business School-HRC sui modelli di collaborazione uomo–AI, fino al focus su formazione e reskilling e ai dati sull’engagement e sul contratto psicologico.
AI e HR: la ricerca dice che è già oggi
Prima ancora delle storie aziendali sono arrivati i dati. L’Ufficio Studi Luiss Business School-HRC, con la ricerca presentata da Giuseppe Italiano e Stefano Za, ha mostrato un quadro chiaro: la produzione scientifica su AI e lavoro HR è esplosa, le aziende dichiarano di voler aumentare gli investimenti (oltre il 90% prevede nuovi progetti nei prossimi anni), ma solo una piccola quota si considera davvero “matura” nell’uso dell’AI nei processi HR.
Le applicazioni più diffuse riguardano efficienza, riduzione degli errori, automazione di attività ripetitive; molto meno frequente è l’uso dell’AI per ripensare il modello organizzativo o aprire nuovi spazi di valore. Il rischio è un patchwork di progetti verticali – su recruiting, formazione, performance – che non parlano tra loro.
Ne esce una prima lezione: AI in HR non è una “feature” in più, ma una scelta di architettura. E se l’AI entra nei processi, HR deve entrare nella governance dell’AI.
Dall’“AI for HR” all’“HR for AI”
Nella successiva open discussion, la trasformazione è diventata storia concreta: Aeroporti di Roma, Groupama Assicurazioni, Fastweb + Vodafone hanno raccontato come stanno provando a portare l’AI dentro i processi quotidiani.
Un filo comune: molti progetti nascono per “fare meglio” ciò che già esiste: chatbot per le domande ricorrenti dei dipendenti, supporto alla stesura di job description e documenti complessi, analisi più rapide dei dati HR, piattaforme interne che suggeriscono contenuti formativi “tipo Netflix” ma il vero salto avviene quando ci si chiede che cosa l’AI permetterebbe di fare che prima non era nemmeno immaginabile. Dal confronto emerge la necessità di costruire una strategia unica di AI, l’importanza di creare centri di competenza interni che accompagnino le funzioni nella sperimentazione e, infine, l’urgenza di una governance chiara, così che la tecnologia non corra più veloce della fiducia.
Qui prende forma la seconda lezione: sviluppare una strategia di AI significa ripensare la struttura organizzativa, non aggiungere un tool all’elenco.
Non è più (solo) “AI for HR”: è HR che guida l’AI, definendo criteri, limiti, linguaggi e metriche anche in termini di benessere e fiducia.
Formazione no stop
Secondo l’Agenda Draghi, quasi 4 competenze su 10 saranno obsolete entro il 2030 e, come indica il WEF, il 63% dei datori di lavoro cita il gap di competenze come barriera strategica.
Eppure, sempre secondo l’Ufficio Studi Luiss Business School-HRC, oltre la metà delle aziende intervistate dichiara di non avere ancora piani continuativi di aggiornamento delle competenze, nonostante riconosca il reskilling come leva prioritaria per la competitività futura.
Nella sessione dedicata, con i contributi di People&Change360, Coin, Haleon, Max Mara Fashion Group e Mylia, il quadro si è allargato.
Sono emersi fenomeni ricorrenti in diverse realtà aziendali: team in cui convivono quattro generazioni con aspettative e alfabetizzazione digitale molto diverse, popolazioni operative spesso senza device aziendali che devono però muoversi tra processi, app e touchpoint digitali e clienti che si aspettano esperienze iper-personalizzate in cui l’AI diventa un nuovo artigiano della relazione. In questo scenario, il reskilling smette di essere un semplice programma formativo e diventa un lavoro di vera architettura organizzativa.
Ne deriva un’altra lezione: i piani annuali “a blocchi” non bastano più e l’AI non può essere vista solo come leva di efficienza, ma come strumento di human augmentation che libera tempo e attenzione perché le persone possano concentrarsi su relazione, giudizio e creatività.
Ascoltare il futuro
Il contributo dell’Italian Institute for the Future ha introdotto un’altra sfida: l’AI rischia di amplificare le disuguaglianze esistenti. Se una parte della popolazione non ha competenze digitali di base, la distanza tra chi può cogliere le nuove opportunità e chi ne resta escluso si allarga. In questo contesto, work-life balance non è un benefit di lusso: diventa una questione di giustizia sociale.
Gestire meglio il tempo, personalizzare le soluzioni è anche un modo per contrastare la crescita delle disuguaglianze.
Qui la lezione è netta: l’equilibrio non è un lusso, è una forma di equità. Non lo garantisce la tecnologia in sé ma la capacità delle organizzazioni di leggere i casi, le storie, i vincoli reali delle persone.
Il contratto che non firmiamo
Ogni rapporto di lavoro si regge su un contratto scritto e su un patto psicologico non scritto: aspettative, riconoscimento, fiducia, possibilità di crescita.
La sessione a cura di PerformanSe ha portato proprio lì: sulla parte invisibile di questo accordo. Se l’AI cambia ruoli, carichi, ritmi e modalità di lavoro, il contratto psicologico si riscrive, che l’azienda lo voglia o no. Le persone non chiedono solo promesse o piani triennali: chiedono presenza, ascolto, coerenza tra parole e scelte.
Da qui una lezione molto semplice ma anche complessa: non rimandiamo a domani la presenza. Non si può delegare a una mail periodica, a una survey di clima o a una piattaforma di comunicazione quello che richiede dialogo, feedback, vicinanza reale.
Adattarsi al “nuovo oggi”
Nell’ultima sessione, i dati di Ipsos, le esperienze di Bonfiglioli, Hewlett Packard Enterprise, Maticmind Group ed Edenred Italia hanno messo in connessione società e lavoro.
Molte persone sentono che il Paese va nella direzione sbagliata, si dichiarano sopraffatte dalla velocità del cambiamento e tendono a costruirsi “bolle di realtà” informativa su misura. D’altro canto, il lavoro viene vissuto in un contesto di ansia economica, insicurezza e ricerca di senso.
Ciò che emerge è il carico di complessità globale che si stia riversando sulle organizzazioni e, quindi, sulle funzioni HR. Strumenti come settimana corta, smart working e piani di welfare e wellbeing flessibili diventano allora leve concrete per restituire tempo e agibilità alle persone, in un contesto lavorativo segnato da burnout e distacco mentale diffuso, soprattutto tra i più giovani, e da un evidente disallineamento tra ciò che i lavoratori vivono e ciò che i manager percepiscono come prioritario. Dare significato alle scelte, presidiare il “come” del cambiamento e costruire fiducia, con coerenza e comunicazione interna, diventa uno dei compiti più importanti per chi fa HR.
Future@Work non ha promesso soluzioni facili. Ha fatto, però, una cosa preziosa: ha messo intorno allo stesso tavolo chi studia il futuro, chi lo regola, chi lo vive ogni giorno in azienda e chi ha il compito di tenere insieme persone e business.
Il futuro del lavoro non si aspetta e non si delega: si costruisce. Un passo alla volta, dentro scelte quotidiane che a poco a poco disegnano il domani della nostra Community e delle organizzazioni.





